27/04/2025 Davide

Scrivere un Prompt 2

Qualche tempo fa mi sono trovato a parlare con un docente universitario di filosofia. Eravamo attorno allo stesso tavolo per un progetto di formazione. La conversazione è scivolata sul fenomeno della cosiddetta pop filosofia. In realtà, avevo citato i libri di Byung-Chul Han, e lui non aveva perso tempo a catalogarli come monnezza: pillole prefabbricate, sottocosto, di filosofia snack.

Mi piace, con gente che non conosco, partire da un approccio ragionevole di confronto. In cuor mio sapevo che, dato il mio carattere e la rigidità dell’interlocutore, sarei prima o poi arrivato a uno scontro infuocato.

Il nodo era la pratica della divulgazione. Ancora una volta. È dai tempi della difesa delle arti minori del fiorentino del Cinquecento, Benedetto Varchi, che sento discorsi del genere. La divulgazione è una disciplina inferiore e quindi… bocciata. Strano.

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Io è una vita che studio, e La società della stanchezza non mi è dispiaciuto affatto — tanto che ora sto leggendo, sempre di Han, il saggio Le non cose.

Insomma, che male c’è a leggere un libro di filosofia concepito per essere letto da una massa? Cosa cambia, allo spessore del ragionamento, il fatto di renderlo accessibile? Per quale motivo ci ostiniamo a pensare che, più un pensiero o uno strumento sono complessi, più sono degni di attenzione e richiedono competenze, conoscenze e capacità elitarie?

Pensateci un momento. Questa sorta di visione ristretta, settaria, in qualche modo pretenziosa, è il motivo per cui non si riesce a sistematizzare in modo strategico un medium come l’A.I.. Di fronte alla disputa su tecnologie e media, c’è chi maledice la conquista di ogni intelligenza diversa dalla sua, e chi invece si sente finalmente liberato dai lacci dell’inadeguatezza. C’è chi si barrica dietro l’idea che una professione non sia solo fare delle domande a una chat, e chi pensa che strumenti come ChatGPT faranno finalmente scomparire le professioni tecniche dalla faccia della Terra.

Si ragiona anche qui per polarizzazioni. Per molti, l’A.I. è responsabile di una ulteriore banalizzazione del pensiero. Inflazionarne l’uso non potrà che impoverire la nostra cultura, coprendola di ridicolo e di una serie ininterrotta di produzioni senza senso e senza qualità. Solo l’idea che il sapere e la conoscenza facciano un passo avanti verso una progressiva democratizzazione delle competenze provoca un senso di disgusto.

Sia chiaro: non sono un sostenitore dell’A.I. acritico e ciecamente entusiasta. Cerco di studiare il fenomeno e capire come possa realmente valorizzare le potenzialità e le abilità di un utente. Sarà per questo che oggi sento di poter dire che, come ogni strumento prima di lei, l’A.I. restituisce ciò che riceve come input. Se abbiamo una visione semplice delle cose, la nostra domanda meriterà risposte semplificate, ingenuamente allineate con la media statistica degli utenti. Se cerchiamo con pazienza di capire i tanti livelli di approfondimento, allora ci sorprenderà.

Ecco: per ottenere il massimo dobbiamo capire chi siamo, come pensiamo, cosa stiamo indagando e con quali strumenti. Dedicare pomeriggi alla configurazione di un profilo, alla definizione di una tecnica interlocutoria. Dobbiamo educare la nostra chat ogni momento, non con la frammentazione degli interventi sporadici, ma con la pazienza dell’insegnante, cercando di non perdere il filo del discorso in un processo iterativo che non ha fine.

Se pretendiamo maggiore attendibilità e qualità dall’A.I., dobbiamo restituirle complessità, trasmetterle profondità. Dietro una intelligente semplificazione può ancora nascondersi il valore di una riflessione lucida ed efficace.

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