di Davide Pellegrini
Per capire come si sta sviluppando la formazione rispetto all’uso dei media è necessario osservare da vicino il comportamento delle ultime generazioni.
Mentre noi insistiamo, forse troppo, con l’idea di una copia digitale del mondo (ogni riferimento al Metaverso è puramente casuale), i ragazzi sono sintonizzati su altro. Sia chiaro, vivono una vita normale. Forse più esposta e, a tratti, complicata dall’uso di piattaforme che, nonostante il suffisso social, possono favorire atteggiamenti problematici.
Però, ed è questo il punto, resta forte la sensazione che capiscano più di noi come utilizzare il potenziale di questi strumenti. Nella più che naturale necessità di relazioni, di fare gruppo e di trovarsi in un sistema di interazioni e scambi legati alla prossimità fisica, si fanno spazio devices e piattaforme vissuti più dal punto di vista utilitaristico che filosofico o esistenziale.
Chiariamo con qualche esempio.
Un ragazzo di 16 anni mi spiega:
pago un abbonamento su Twitch per vedere uno streamer che propone contenuti che mi piacciono e mi interessano. Non si parla di grandi cifre. Piuttosto, dato che non guardo la televisione e i film li posso vedere quando mi pare e più o meno ovunque vista la quantità di siti web come Netflix, se voglio vedermi una diretta quando torno da una festa e lui è online, mi connetto su Twitch ed è fatta. Parla di gaming, ma anche di tecnologie, di cose della vita… fa delle maratone anche di 24 ore. È bravo e divertente.
Ho volutamente tralasciato il nome, ma il punto è che per molti ragazzi della stessa età piattaforme come Twitch rappresentano delle commodity, delle offerte aggiuntive a un sistema di contenuti generati instancabilmente nell’immediatezza delle performance degli streamer. Non c’è pervasività, c’è la scelta di un palinsesto personalizzato all’eccesso dall’immane offerta digitale. Una library infinita. Dovremmo abituarci a sostituire la parola pervasività con il termine accessibilità. L’accessibilità, in un mondo abitato da media potentissimi e strumenti come smart phone, tablet, consolle, pc e visori, si è estesa oltre ogni immaginazione. Sei connesso sempre, ma puoi scegliere cosa vedere e con chi interagire nel continuo gioco di equilibrio tra evento in streaming e contenuto asincrono.
Commodity, dunque. Non c’è l’obiettivo di nessuna rivoluzione 4.cosa, non c’è neppure la rincorsa a rifugiarsi nell’universo della virtualità (come in molti romanzi sci-fi o cyberpunk). Questi ragazzi sono semplicemente nati e cresciuti nel digitale. Utilizzano questi strumenti come un bambino che inizi a scarabocchiare su un foglio di carta con una matita.
Quale è, però, il vantaggio? Ce ne sono vari. Il fatto di interpretare un medium tecnologico come cassa di risonanza per quello che vivono ogni giorno, per stimolare reazioni rispetto a ciò che succede con un approccio partecipativo e volto a selezionare e condividere i propri modelli culturali, per aprire finestre nella libera esibizione delle proprie capacità al di fuori di ogni percorso prestabilito o convenzionale.
A volte mi sono trovato sintonizzato su format e personalità di cui ho paura di aver capito poco, forse nell’aspettativa di trovare logiche sequenziali di narrazione, strutture ben definite di sviluppo e articolazione di contenuti. Nulla a che vedere con lo spontaneismo che domina quest’epoca di produzioni social.
Forse, mi sono detto, è puro linguaggio, pura e semplice espressione, come per noi l’inizio della messaggistica sui cellulari è stato l’incipit inebriante di un nuovo modo di interagire.
Nella spasmodica ricerca di significato, ci siamo persi per strada l’idea che si tratti di semplicissimi strumenti in più, in una logica di vita che tutto sommato non è molto diversa dalla nostra. I gusti musicali sono differenti, i film, probabilmente le serie TV, alcuni video su YouTube o su Instagram, i locali che frequentano, gli eventi, gli artisti famosi. Ma nulla, dico nulla, è davvero tanto originale da far perdere il sospetto che non succedesse già prima, che non fosse già stato fatto. Probabilmente quando eravamo noi adolescenti alcune cose non avevano successo perché non esisteva di fatto una divulgazione di questo genere. La modalità della pubblicazione su una lavagna condivisa in tempo reale da miliardi di persone è una conquista dell’era tecnologica, ma il percorso di vita è assolutamente lo stesso.
I ragazzi crescono, fanno esperienze, consumano prodotti culturali, elaborano idee e progetti, vivono passioni, si creano aspettative, scelgono un indirizzo professionale, costruiscono giorno dopo giorno la propria vita affettiva e relazionale, si legano a qualcuno e vanno avanti, esattamente come chiunque altro prima di loro. L’in più, probabilmente, è in questa forma-format che mescola la vita reale al suo corrispettivo digitale dove, molto spesso, i contenuti subiscono le logiche della fiction, diventano trailer, stories.
Pensiamo alla formazione.
Da qualche anno si è trasformata anch’essa in una specie di commodity. Piattaforme come Udemy, Coursera, Domestika, hanno costruito ad arte il fenomeno del corso low cost, fruibile ovunque come una specie di trasmissione TV, modalità asincrona, durata piuttosto stringata per unità didattica, qualche verifica (poche), materiali scaricabili mentre si consumano le pillole.
Allo stesso modo, il linguaggio è diventato divulgativo, veloce, con un uso piuttosto marcato di effetti visivi, pop up, testi, visual, ecc.
La formazione si è, per così dire, spettacolarizzata e ha acquisito le forme di qualsiasi altro contenuto sulle piattaforme digitali. Gli standard che si sono imposti, del resto, sono quelli di YouTube, Instagram, Tiktok e la maggior parte dei player e delle agenzie formative guarda al tipo di contenuto virale che può girare su queste piattaforme. Non è un caso che oggi molti puntino sull’effetto streaming. Con l’ondata della applicazioni digitali in pandemia e con gli effetti dello smart working i modelli si sono standardizzati. Oggi fare formazione o fare un call può addirittura sembrare un sinonimo.
Occorre, però, sottolineare che questi tempi hanno anche inaugurato un modo del tutto nuovo di immaginare l’esperienza formativa. I social, in un certo senso, ci hanno abituato al concetto di reality e di talent. Intendo dire che, in un ecosistema digitale come quello odierno, l’esibizione di sé e il gusto della performance a cui corrisponde l’indice di gradimento di un pubblico, sono diventati elementi di straordinaria importanza. Direi, importanza centrale. Non siamo più nel 2000, anno della prima produzione del Grande Fratello (considerate che il genere TV verità risale alla prime metà degli anni ’40), siamo più che abituati al realismo di certe situazioni. Così, con il tempo che passa, molti hanno cercato situazioni formative simili a esperienze sociali di tipo ludico. Sono nati format di co-working, co-living, community, travel experience, temporary campus. Insomma, la contaminazione di format e di contenuti ha superato in modo netto il classico setting dello studente seduto in aula ad ascoltare qualcuno che parla.
Per un creativo che si occupa di formazione e di sviluppo di contenuti è una sfida potentissima. Si tratta di progettare la dinamica narrativa, le modalità di gameplay e di engagement prima ancora dei moduli formativi. Questa sorta di meta-narrazione continua – che permette un’esplorazione cross mediale – è il vero valore aggiunto delle nuove esperienze educative. Dobbiamo ragionare sul digitale come uno strumento in grado di amplificare la realtà senza sostituirla, un mezzo per fa convergere sensazioni, emozioni, informazioni in un’unica esperienza.