di Davide Pellegrini
Chiariamo una cosa. Per capire la potenza delle serie tv bisogna studiare il percorso dei creativi che le hanno realizzate. Punto. Ora, nell’arduo compito di rimanere aggiornati con il mondo delle produzioni a volte sfuggono delle informazioni di capitale importanza. The Bear è un’opera firmata da Christopher Storer, già director dei bellissimi spettacoli del 2013 e del 2016 di Bo Burnham, What e Make Happy, due capolavori della stand up comedy che hanno consacrato Bo tra i mostri di questo genere one man show. L’intelligenza dei testi, l’incredibile bravura del performer nulla tolgono alla maestria della regia. Il ritmo del comedy, se c’è e funziona, penetra ogni resistenza e preconcetto e arriva a meta. Storer sarà produttore qualche anno dopo, nel 2018, del primo film di Burnham, Eight Grade.
Non sapevo, però, che si fosse occupato nel 2018 della produzione esecutiva di un altro comedian come Chris Rock, ricordate? Oggi tristemente noto come il comico che ha preso la pizza da Will Smith nella cerimonia della notte degli Oscar 2022 per una battuta infelice sull’alopecia della moglie. Beh, tenetevi forte. Chris Rock è uno degli stand up comedian considerati più bravi sulla scena mondiale (anche perché il grosso di questo genere è di matrice anglosassone, è da quel laboratorio che sono venuti fuori i mostri sacri).
Storer è stato anche regista del pluripremiato special Netflix Hasan Minhaj: Homecoming King, molto noto non solo tra addetti ai lavori.
Perché questa premessa?
Cominciamo con il dire che da sempre sosteniamo l’importanza della stand up comedy, non solo come puro contenuto di intrattenimento, ma come vero e proprio strumento di crescita personale. Non solo per la capacità di alternare il registro comico, cinico, sarcastico alla riflessione su temi importanti della società civile e della percezione culturale del mondo, ma perché è un tipo di arte che favorisce lo sviluppo di abilità performative che, oggi, grazie alla potente deriva dei media digitali esercitano in varie forme più o meno tutti.
Bene, ci siamo tolti dalle scatole il pippone sociologico. Veniamo a The Bear. Perché vederla, cosa ha di speciale.
Prima di tutto, il tone of voice della cattiveria nevrotica della cultura comedy c’è tutto. Scene girate in modo frenetico, concitato, attori sopra le righe con prestazioni che li mostrano come esseri divorati da stress e vite ai margini della resistenza psico-fisica (non c’è uno che non usi qualche benzo-diazepina, bontà loro…). I dialoghi sono sparati con la pistola, le parole spesso gridate e sovrapposte in ritmi davvero insostenibili. E qui c’è una chicca, a parte il plot sia chiaro, che in se stesso è magistrale. In un periodo come il nostro, che ci sta martoriando i cosiddetti con tutto il food show possibile e immaginabile nei social, ricette, cooking performance, cucine dal mondo, chef a destra e sinistra (che, ormai, se cucini una minestrina ti senti talmente in colpa da non riuscire più a guardati allo specchio), The Bear mostra il lato duro e impossibile del mestiere del ristoratore. Un lavoro complesso, faticosissimo, impegnativo oltre ogni dire. Un mestiere che dietro il servizio al cliente nasconde la terra di mezzo delle cucine, un backstage della vita e dei rapporti umani in cui si consumano quasi tutti gli archetipi della commedia e del dramma. The Bear ti fa vedere il mestiere come è. Un culo di proporzioni bibliche. E, nonostante ciò, ti fa amare la storia, i personaggi. L’incipit semi-thriller da cui parte.
Momento spoiler, quindi se non volete sapere, usate un foglietto di carta e coprite questo pezzo di testo. Lo prendo volutamente da Wikipedia, quindi non può essere più rarefatto ed essenziale di così. Se volete qualcosa di meno indicativo dobbiamo pensare a un haiku, ma non abbiamo il tempo.
Trama/Drama
Un giovane chef del mondo dell’alta cucina torna a Chicago per gestire la paninoteca italiana di famiglia dopo il suicidio del fratello maggiore, che ha lasciato debiti, una cucina fatiscente e uno staff indisciplinato.
Bene, da questo contesto di partenza si muove tutta la narrazione.
Cosa ha di particolare e perché vederla?
Non solo, dicevo, perché è un gran bel pezzo di produzione televisiva con una regia, una cura delle immagini, una sapiente ambientazione, dialoghi fantastici, caratterizzazione dei personaggi eccellente, ecc. Piuttosto perché contiene alcuni suggerimenti che fanno bene al modo di pensare e di affrontare qualsiasi progetto di vita. Quelli bravi direbbero, fa bene al mindset. Un elenco in stile spesa da Carrefour.
1 – nessun progetto di impresa è una passeggiata;
2 – l’esecutività ordinaria dei giorni è messa a dura prova dalla pressione psicolgica delle incombenze burocratiche. Non esiste idea senza burocracy, non esiste capacità di sopportare le variabili della burocrazia senza dividerne il peso con un team affidabile;
3 – il team è un organismo composto da equilibri molto sofisticati. Empatia, fiducia, collaborazione, ascolto, delega, complicità. Non esiste semplicemente una gerarchia piramidale. La vita è dura, abbiamo bisogno degli altri;
4 – un aspetto importante, per me di grande insegnamento. Il protagonista rinuncia a una via di successo in cui, da solo, affronta un ambiente ostico e difficile. Quando approda al ristorante che gli lascia il fratello, la sua figura professionale ne esce ridimensionata rispetto al palcoscenico a cui era abituato, ma ne guadagna in rapporti umani. Ecco, questo vuol dire che le relazioni che abbiamo attorno possono avere un valore di compensazione di ogni disincanto a cui la vita ci costringe negli anni;
5 – il ultimo, abbiamo bisogno di storie vere, lontane dalla rappresentazione bidimensionale delle icone e delle scenette sa social. Stacchiamo il cervello dal futile per ricollegarlo all’essenziale.
Vedetela, fa davvero bene.