Chiamami Mario

A giugno di quest’anno abbiamo cominciato un percorso all’interno del progetto di Opening Future (Google, Tim Enterprise, Intesa San Paolo) sulla formazione dei docenti. Un gruppo di lavoro coordinato da me, Federica Donati, Carolina Tardito Baudin.

Abbiamo progettato e realizzato un corso sul tema del valore e uso dei videogame come strumento di insegnamento e di costruzione di una relazione con il gruppo classe.

Si tratta di 16 video.

I primi 8 li abbiamo dedicati a una parte, per così dire teorica, con temi che spaziano dalla Storia del Videogame al valore dei videogame rispetto a problemi sociali come il cyberbullismo.

I secondi 8 sono invece delle Esercitazioni, grazie alle quali gli insegnanti possono organizzare workshop e laboratori direttamente con i propri studenti.

Quando abbiamo accettato questo incarico, l’abbiamo fatto consapevoli di mettere le nostre competenze al servizio di un obiettivo davvero rilevante: la media education è diventata uno strumento di importanza capitale.

C’è bisogno di allineare l’insegnamento ai linguaggi sempre più pervasivi dei nuovi media.

Lo abbiamo visto, lo vediamo ogni giorno. Piattaforme come YouTube, TikTok, Instagram possono diventare piattaforme efficaci e potenti di amplificazione del messaggio educativo. Nulla di strano, siamo nell’universo dell’EdTech. Negare il ruolo decisivo che l’industria del videogame ha nella formazione della coscienza critica di un adolescente è evitare di confrontarsi con la semplice evidenza dei fatti.

I videogiochi non sono solo un passatempo da destinare all’entertainment. Sono sempre più, piuttosto, dei veicoli di informazioni, modelli culturali, modi di pensare e comportarsi che comprendono l’area dell’educazione civica, sociale, culturale.

Un messaggio a noi docenti, insegnanti, educatori. Saperne di più non vuol dire necessariamente piegare la sacralità della conoscenza alle seduzioni della cultura Pop. L’abbiamo detto tante volte, ne abbiamo parlato con professionisti e amici come Stefano Cecere, Tommaso Ariemma, Marco Vigelini, Roberto Semprebene, Enrico Gandolfi, Davide Bennato, Gianna Cappello, Lidia Gattini, Seibezzi Camilla e tanti, tanti altri.

Ogni videogioco che abbiamo esaminato può essere letto e studiato da prospettive diverse. Un semplice passatempo, o un contenitore di interpretazioni sociologiche, psicologiche e filosofiche.

Lo sforzo in più che come progettisti abbiamo fatto è costruire delle adeguate strategie di coinvolgimento, con moduli progettati com e fossero libretti d’istruzione per permettere a insegnanti ed educatori di creare delle proprie esperienze in classe. Chiamiamoli project work o, magari, laboratori.

 

Qui di seguito piano del progetto:

1 – Storia dei videogame

Esercitazione, come costruire un videogame

2 – Il significato dei videogame

Esercitazione, creare un laboratorio sulle emozioni

3 – Videogame s soft skill

Esercitazione, il problem solving

4 – Videogame e performance

Esercitazione, creare un format

5 – Videogame e storytelling

Esercitazione, come progettare una storia

6 – Videogame e apprendimento

Esercitazione, progettare uno scopo educativo

7 – Videogame e diversità

Esercitazione, costruire dinamiche relazionali

8 – Videogame e bullismo

Esercitazione, ideare una campagna anti-bullismo

Il corso si rivolge a insegnanti ed educatori di scuole medie e superiori. È completamente gratuito, basta iscriversi.

Per le integrazioni con momenti di facilitazione in classe il nostro team è disponibile a incontrare le scuole er gli insegnanti per studiare un piano di attivazione dei workshop e laboratori.

Per le iscrizioni scrivete a:

chiamamimario@switchup.it

 

 

L’A.I. e l’opportunità di crescita professionale nel settore creativo

di Davide Pellegrini

Sulla AI e sulla capacità adattativa degli algoritmi si è detto di tutto. Ad esempio, la produzione automatica e automatizzata di testi e immagini – da Dall-e a Midjourney per arrivare a Chat Gpt – si è trasformata nella fobia distopica di venire rimpiazzati da robot senzienti, in allineamento con le profezie di Asimov. Dietro la rielaborazione visual di midjourney si è intravisto il pericolo di una nuova stagione della creatività che può fare a meno dell”intuizione umana. Per farla breve, i copywriter e i graphic designer sono in allerta. Il ragionamento sui singoli strumenti si blocca al terrore preventivo, dimenticando o sottovalutando la centralità del ruolo dell’essere umano.

Eppure abbiamo più volte detto – e ci siamo trovati d’accordo – che la vera questione è di tipo linguistico. Il dialogo con le macchine implica la messa a punto di un’esattezza delle informazioni, una semantica che, vista la capacità di interpretazione del cervello, allo stato attuale è una dote esclusiva degli umani, grazie anche all’apporto creativo delle emozioni.

Prendiamo, come ha suggerito Fabio Lalli nel suo ultimo post, l’A.I. generativa, una delle più rilevanti categorie del machine learning. L’intelligenza crea contenuti in risposta ai suggerimenti dell’utente. Animazione, e video, immagini e testi, musica, creazione di personaggi e avatar virtuali.

Il paradigma che muove l’A.I. generativa è il rapporto tra l’input (informazione) e l’output (rielaborazione in una forma mediale):

  • Text to Image (T2I)
  • Text to Video (T2V)
  • Text to Audio (T2A)
  • Text to Text (T2T)
  • Text to Motion (T2M)
  • Image to Text (I2T)
  • Audio to Text (A2T)
  • Audio to Audio (A2A)
  • Brain to Text (B2T)
  • Text to Code (T2C)
  • Text to 3D (T23D)
  • Text to NFT (T2N)
  • …. Text-to-Everything!

Da Gaming e rivoluzione dell’intelligenza artificiale generativa di Fabio Lalli

Appare più che evidente che il rapporto tra l’interprete e la macchina si dovrà basare sulla capacità di reciproca comprensione. I modelli, cosiddetti multimodali, permetteranno al designer/ progettista di stabilire la strategia per combinare suoni e musiche con parole e testi, immagini e animazioni, creando la direzione per il processo di sviluppo del contenuto. In questo senso, al processo di intelligenza artificiale verrebbe lasciato il compito di realizzare il prodotto in dettaglio. Quella parte che, oggi, siamo inclini a considerare come la fase di realizzazione tecnica.

Il fatto di dover immaginare il proprio lavoro come una sorta di upgrade nella direzione creativa è, però, una vera e propria rivoluzione. Chi lavora con la creatività, chi lavora sui testi, sulle immagini, non può fermarsi alla paura irrazionale di uno strumento poco conosciuto, ma deve approfittare dell’occasione per approfondirne gli aspetti complementari alle proprie necessità professionali. Deve saper valorizzare la propria personalità di interpretazione, avendo cura del proprio stile espressivo come fosse il reale valore aggiunto.

Di solito, quando scrivo, uso delle metafore. Sono il modo più semplice e immediato di far arrivare un concetto.

Abbiamo parlato di direzione creativa, in fondo. Pensiamo a un’orchestra. I musicisti, gli esecutori, sono lo strumento che in concreto attiva la performance dal punto di vista tecnico; il direttore, con la sua bacchetta, è quello che comunica, grazie a un complesso sistema di segni e gesti, la direzione da dare all’esecuzione. Quegli scatti di mano, quei ghirigori animati che vediamo – parlo da ammiratore profano – sono indicazioni precise. Poi, però, c’è la personalizzazione della comunicazione, c’è lo stile personale del Direttore rispetto a quello che si vuole dire al pubblico, comunicandolo prima di tutti ai musicisti.

Quando penso a questo parallelo mi viene in mente Leonard Bernstein. Il grande maestro diresse la Vienna Philarmonic nel 1984. Nel delizioso finale della sinfonia n.88 di Haydn, Bernstein mette da parte la bacchetta e usa solo i segni del viso. Ecco, questo credo sia il modo più originale che abbia mai visto per una direzione creativa. E questo è anche il senso di ciò che, con l’A.I. dovremmo e dovremo riuscire a fare nel nostro lavoro. Posare la bacchetta e lavorare con le emozioni più profonde.

 

 

La formazione che cambia e le ultime generazioni.

di Davide Pellegrini

 

Per capire come si sta sviluppando la formazione rispetto all’uso dei media è necessario osservare da vicino il comportamento delle ultime generazioni.
Mentre noi insistiamo, forse troppo, con l’idea di una copia digitale del mondo (ogni riferimento al Metaverso è puramente casuale), i ragazzi sono sintonizzati su altro. Sia chiaro, vivono una vita normale. Forse più esposta e, a tratti, complicata dall’uso di piattaforme che, nonostante il suffisso social, possono favorire atteggiamenti problematici.
Però, ed è questo il punto, resta forte la sensazione che capiscano più di noi come utilizzare il potenziale di questi strumenti. Nella più che naturale necessità di relazioni, di fare gruppo e di trovarsi in un sistema di interazioni e scambi legati alla prossimità fisica, si fanno spazio devices e piattaforme vissuti più dal punto di vista utilitaristico che filosofico o esistenziale.

Chiariamo con qualche esempio.

Un ragazzo di 16 anni mi spiega:
pago un abbonamento su Twitch per vedere uno streamer che propone contenuti che mi piacciono e mi interessano. Non si parla di grandi cifre. Piuttosto, dato che non guardo la televisione e i film li posso vedere quando mi pare e più o meno ovunque vista la quantità di siti web come Netflix, se voglio vedermi una diretta quando torno da una festa e lui è online, mi connetto su Twitch ed è fatta. Parla di gaming, ma anche di tecnologie, di cose della vita… fa delle maratone anche di 24 ore. È bravo e divertente.

Ho volutamente tralasciato il nome, ma il punto è che per molti ragazzi della stessa età piattaforme come Twitch rappresentano delle commodity, delle offerte aggiuntive a un sistema di contenuti generati instancabilmente nell’immediatezza delle performance degli streamer. Non c’è pervasività, c’è la scelta di un palinsesto personalizzato all’eccesso dall’immane offerta digitale. Una library infinita. Dovremmo abituarci a sostituire la parola pervasività con il termine accessibilità. L’accessibilità, in un mondo abitato da media potentissimi e strumenti come smart phone, tablet, consolle, pc e visori, si è estesa oltre ogni immaginazione. Sei connesso sempre, ma puoi scegliere cosa vedere e con chi interagire nel continuo gioco di equilibrio tra evento in streaming e contenuto asincrono.

Commodity, dunque. Non c’è l’obiettivo di nessuna rivoluzione 4.cosa, non c’è neppure la rincorsa a rifugiarsi nell’universo della virtualità (come in molti romanzi sci-fi o cyberpunk). Questi ragazzi sono semplicemente nati e cresciuti nel digitale. Utilizzano questi strumenti come un bambino che inizi a scarabocchiare su un foglio di carta con una matita.

Quale è, però, il vantaggio? Ce ne sono vari. Il fatto di interpretare un medium tecnologico come cassa di risonanza per quello che vivono ogni giorno, per stimolare reazioni rispetto a ciò che succede con un approccio partecipativo e volto a selezionare e condividere i propri modelli culturali, per aprire finestre nella libera esibizione delle proprie capacità al di fuori di ogni percorso prestabilito o convenzionale.

A volte mi sono trovato sintonizzato su format e personalità di cui ho paura di aver capito poco, forse nell’aspettativa di trovare logiche sequenziali di narrazione, strutture ben definite di sviluppo e articolazione di contenuti. Nulla a che vedere con lo spontaneismo che domina quest’epoca di produzioni social.
Forse, mi sono detto, è puro linguaggio, pura e semplice espressione, come per noi l’inizio della messaggistica sui cellulari è stato l’incipit inebriante di un nuovo modo di interagire.
Nella spasmodica ricerca di significato, ci siamo persi per strada l’idea che si tratti di semplicissimi strumenti in più, in una logica di vita che tutto sommato non è molto diversa dalla nostra. I gusti musicali sono differenti, i film, probabilmente le serie TV, alcuni video su YouTube o su Instagram, i locali che frequentano, gli eventi, gli artisti famosi. Ma nulla, dico nulla, è davvero tanto originale da far perdere il sospetto che non succedesse già prima, che non fosse già stato fatto. Probabilmente quando eravamo noi adolescenti alcune cose non avevano successo perché non esisteva di fatto una divulgazione di questo genere. La modalità della pubblicazione su una lavagna condivisa in tempo reale da miliardi di persone è una conquista dell’era tecnologica, ma il percorso di vita è assolutamente lo stesso.

I ragazzi crescono, fanno esperienze, consumano prodotti culturali, elaborano idee e progetti, vivono passioni, si creano aspettative, scelgono un indirizzo professionale, costruiscono giorno dopo giorno la propria vita affettiva e relazionale, si legano a qualcuno e vanno avanti, esattamente come chiunque altro prima di loro. L’in più, probabilmente, è in questa forma-format che mescola la vita reale al suo corrispettivo digitale dove, molto spesso, i contenuti subiscono le logiche della fiction, diventano trailer, stories.

Pensiamo alla formazione.

Da qualche anno si è trasformata anch’essa in una specie di commodity. Piattaforme come Udemy, Coursera, Domestika, hanno costruito ad arte il fenomeno del corso low cost, fruibile ovunque come una specie di trasmissione TV, modalità asincrona, durata piuttosto stringata per unità didattica, qualche verifica (poche), materiali scaricabili mentre si consumano le pillole.
Allo stesso modo, il linguaggio è diventato divulgativo, veloce, con un uso piuttosto marcato di effetti visivi, pop up, testi, visual, ecc.
La formazione si è, per così dire, spettacolarizzata e ha acquisito le forme di qualsiasi altro contenuto sulle piattaforme digitali. Gli standard che si sono imposti, del resto, sono quelli di YouTube, Instagram, Tiktok e la maggior parte dei player e delle agenzie formative guarda al tipo di contenuto virale che può girare su queste piattaforme. Non è un caso che oggi molti puntino sull’effetto streaming. Con l’ondata della applicazioni digitali in pandemia e con gli effetti dello smart working i modelli si sono standardizzati. Oggi fare formazione o fare un call può addirittura sembrare un sinonimo.

Occorre, però, sottolineare che questi tempi hanno anche inaugurato un modo del tutto nuovo di immaginare l’esperienza formativa. I social, in un certo senso, ci hanno abituato al concetto di reality e di talent. Intendo dire che, in un ecosistema digitale come quello odierno, l’esibizione di sé e il gusto della performance a cui corrisponde l’indice di gradimento di un pubblico, sono diventati elementi di straordinaria importanza. Direi, importanza centrale. Non siamo più nel 2000, anno della prima produzione del Grande Fratello (considerate che il genere TV verità risale alla prime metà degli anni ’40), siamo più che abituati al realismo di certe situazioni. Così, con il tempo che passa, molti hanno cercato situazioni formative simili a esperienze sociali di tipo ludico. Sono nati format di co-working, co-living, community, travel experience, temporary campus. Insomma, la contaminazione di format e di contenuti ha superato in modo netto il classico setting dello studente seduto in aula ad ascoltare qualcuno che parla.

Per un creativo che si occupa di formazione e di sviluppo di contenuti è una sfida potentissima. Si tratta di progettare la dinamica narrativa, le modalità di gameplay e di engagement prima ancora dei moduli formativi. Questa sorta di meta-narrazione continua – che permette un’esplorazione cross mediale – è il vero valore aggiunto delle nuove esperienze educative. Dobbiamo ragionare sul digitale come uno strumento in grado di amplificare la realtà senza sostituirla, un mezzo per fa convergere sensazioni, emozioni, informazioni in un’unica esperienza.

 

 

 

Perché vedere The Bear. Il blog di TNA.
Una serie TV educativa e stimolante.

Il valore educativo di The Bear

di Davide Pellegrini

 

Chiariamo una cosa. Per capire la potenza delle serie tv bisogna studiare il percorso dei creativi che le hanno realizzate. Punto. Ora, nell’arduo compito di rimanere aggiornati con il mondo delle produzioni a volte sfuggono delle informazioni di capitale importanza. The Bear è un’opera firmata da Christopher Storer, già director dei bellissimi spettacoli del 2013 e del 2016 di Bo Burnham, What e Make Happy, due capolavori della stand up comedy che hanno consacrato Bo tra i mostri di questo genere one man show. L’intelligenza dei testi, l’incredibile bravura del performer nulla tolgono alla maestria della regia. Il ritmo del comedy, se c’è e funziona, penetra ogni resistenza e preconcetto e arriva a meta. Storer sarà produttore qualche anno dopo, nel 2018, del primo film di Burnham, Eight Grade.

Non sapevo, però, che si fosse occupato nel 2018 della produzione esecutiva di un altro comedian come Chris Rock, ricordate? Oggi tristemente noto come il comico che ha preso la pizza da Will Smith nella cerimonia della notte degli Oscar 2022 per una battuta infelice sull’alopecia della moglie. Beh, tenetevi forte. Chris Rock è uno degli stand up comedian considerati più bravi sulla scena mondiale (anche perché il grosso di questo genere è di matrice anglosassone, è da quel laboratorio che sono venuti fuori i mostri sacri).
Storer è stato anche regista del pluripremiato special Netflix Hasan Minhaj: Homecoming King, molto noto non solo tra addetti ai lavori.

Perché questa premessa?

Cominciamo con il dire che da sempre sosteniamo l’importanza della stand up comedy, non solo come puro contenuto di intrattenimento, ma come vero e proprio strumento di crescita personale. Non solo per la capacità di alternare il registro comico, cinico, sarcastico alla riflessione su temi importanti della società civile e della percezione culturale del mondo, ma perché è un tipo di arte che favorisce lo sviluppo di abilità performative che, oggi, grazie alla potente deriva dei media digitali esercitano in varie forme più o meno tutti.

Bene, ci siamo tolti dalle scatole il pippone sociologico. Veniamo a The Bear. Perché vederla, cosa ha di speciale.
Prima di tutto, il tone of voice della cattiveria nevrotica della cultura comedy c’è tutto. Scene girate in modo frenetico, concitato, attori sopra le righe con prestazioni che li mostrano come esseri divorati da stress e vite ai margini della resistenza psico-fisica (non c’è uno che non usi qualche benzo-diazepina, bontà loro…). I dialoghi sono sparati con la pistola, le parole spesso gridate e sovrapposte in ritmi davvero insostenibili. E qui c’è una chicca, a parte il plot sia chiaro, che in se stesso è magistrale. In un periodo come il nostro, che ci sta martoriando i cosiddetti con tutto il food show possibile e immaginabile nei social, ricette, cooking performance, cucine dal mondo, chef a destra e sinistra (che, ormai, se cucini una minestrina ti senti talmente in colpa da non riuscire più a guardati allo specchio), The Bear mostra il lato duro e impossibile del mestiere del ristoratore. Un lavoro complesso, faticosissimo, impegnativo oltre ogni dire. Un mestiere che dietro il servizio al cliente nasconde la terra di mezzo delle cucine, un backstage della vita e dei rapporti umani in cui si consumano quasi tutti gli archetipi della commedia e del dramma. The Bear ti fa vedere il mestiere come è. Un culo di proporzioni bibliche. E, nonostante ciò, ti fa amare la storia, i personaggi. L’incipit semi-thriller da cui parte.

Momento spoiler, quindi se non volete sapere, usate un foglietto di carta e coprite questo pezzo di testo. Lo prendo volutamente da Wikipedia, quindi non può essere più rarefatto ed essenziale di così. Se volete qualcosa di meno indicativo dobbiamo pensare a un haiku, ma non abbiamo il tempo.

Trama/Drama

Un giovane chef del mondo dell’alta cucina torna a Chicago per gestire la paninoteca italiana di famiglia dopo il suicidio del fratello maggiore, che ha lasciato debiti, una cucina fatiscente e uno staff indisciplinato.

Bene, da questo contesto di partenza si muove tutta la narrazione.
Cosa ha di particolare e perché vederla?
Non solo, dicevo, perché è un gran bel pezzo di produzione televisiva con una regia, una cura delle immagini, una sapiente ambientazione, dialoghi fantastici, caratterizzazione dei personaggi eccellente, ecc. Piuttosto perché contiene alcuni suggerimenti che fanno bene al modo di pensare e di affrontare qualsiasi progetto di vita. Quelli bravi direbbero, fa bene al mindset. Un elenco in stile spesa da Carrefour.

1 – nessun progetto di impresa è una passeggiata;
2 – l’esecutività ordinaria dei giorni è messa a dura prova dalla pressione psicolgica delle incombenze burocratiche. Non esiste idea senza burocracy, non esiste capacità di sopportare le variabili della burocrazia senza dividerne il peso con un team affidabile;
3 – il team è un organismo composto da equilibri molto sofisticati. Empatia, fiducia, collaborazione, ascolto, delega, complicità. Non esiste semplicemente una gerarchia piramidale. La vita è dura, abbiamo bisogno degli altri;
4 – un aspetto importante, per me di grande insegnamento. Il protagonista rinuncia a una via di successo in cui, da solo, affronta un ambiente ostico e difficile. Quando approda al ristorante che gli lascia il fratello, la sua figura professionale ne esce ridimensionata rispetto al palcoscenico a cui era abituato, ma ne guadagna in rapporti umani. Ecco, questo vuol dire che le relazioni che abbiamo attorno possono avere un valore di compensazione di ogni disincanto a cui la vita ci costringe negli anni;
5 – il ultimo, abbiamo bisogno di storie vere, lontane dalla rappresentazione bidimensionale delle icone e delle scenette sa social. Stacchiamo il cervello dal futile per ricollegarlo all’essenziale.

Vedetela, fa davvero bene.

 

 

Perché nel Metaverso non c'è nessuno. Il blog di TNA.
Perché nel Metaverso non c'è nessuno. Il blog di TNA.

Perché nel Metaverso non c’è nessuno?

Di Davide Pellegrini

Una delle cose che piace dei sistemi decentralizzati è la possibilità concessa agli utenti di organizzare autonomamente contenuti e tools al servizio della community. Così DCL Metrics, strumento di analisi costruito dagli utenti di Decentraland, publica i dati di affluenza di settembre, circa 57mila utenti unici, e di ottobre, poco più di 7mila utenti al giorno. Numeri non proprio entusiasmanti per una realtà valutata 1,3 miliardi di dollari. Persino Second Life, con la sua community da 500mila utenti conta una partecipazione e fidelizzazione maggiori.

Che succede, ci si chiede? Nel Metaverso non c’è nessuno… titolano alcuni periodici e giornali, come fosse una “Meta” turistica qualsiasi, come fosse un locale che, dopo il gran fragore dell’inaugurazione, resti vuoto alle ore di punta.

Dal mio punto di vista che, come sapete, è ormai velatamente polemico, l’attesa di successo attorno alle piattaforme come Decentraland, The Sandbox, la stessa Second Life sono il risultato di visioni miopi e superficiali.

Prima di tutto è paradossale e piuttosto imbarazzante immaginare il Metaverso come un ecosistema alternativo di realtà virtuale, qualcosa che dovrebbe presupporre tante individui sorridenti quotidianamente connessi per mezzo di un visore. No, dico, provate anche solo a immaginare che razza di incubo potrebbe essere avere a che fare con un’umanità alienata per 7-8 ore al giorno dentro i mall hyper-commerciali dell’Oculus! Trovarsi ovunque questa specie di Polifemo digitali, da Starbucks a Ikea!

Nemmeno ci trovassimo a pagina 50 di un romanzo distopico di William Gibson.

Poi, va detto, il Metaverso è una teoria, un concetto, semmai quelli che già esistono sono tanti multiversi, spazi circoscritti, legiferati da sistemi specifici di regole. Minecraft conta 141 milioni di utenti unici attivi al mese, Roblox circa 200 milioni, Fortnite è a quota 80.

Queste ultime 3 piattaforme, però, dovrebbero dirci qualcosa. Sì, perché il filo conduttore, il driver motivazionale per stare in un Multiverso è avere uno scopo, come nel caso del gaming che, grazie ai nuovi approcci che vanno molto al di là della sequenzialità narrativa tradizionale, diventano anche community, marketplace, sistemi di scambio e confronto di prassi, piattaforme di co-design e co-creazione. Il gaming offre, quindi, la motivazione reale all’esplorazione. La scoperta e la competizione, da un punto di vista psicologico, la dopamina e l’endorfina dal punto di vista neuro-chimico. Funziona anche per community specifiche animate dallo stesso spirito di scopo. Discord ha dato vita a un dinamismo incredibile attorno alle sperimentazioni grafica in AI di Midjourney.

Viceversa, semplicemente immaginare di costruire una specie di fotocopia della realtà in digitale da vivere in modo alternativo allo spazio fisico, a me personalmente sembra una visione ingenua e inutile.

Anche perché, diciamocelo, le ultime generazioni – dai dati presentati ultimamente solo 7 ragazzi su 100 partecipano al Metaverso – hanno un’idea meno ingenua della nostra rispetto al ruolo e alla funzione delle tecnologie nel sistema socio-culturale. Non basta offuscargli il cervello con il 3D immersivo o altri magheggi per fargli dimenticare che c’è ancora tanto, tantissimo da fare nel dannato mondo reale. Strano vero? Molti di noi, ormai nel disincanto delle idee, avrebbero giurato che la Thunberg sarebbe diventata l’icona di una maglietta un pò come è capitato per i nostri miti giovanili, da Bob Marley a Che Guevara. Ma non è così. Molti ragazzi credono in quello che fanno e lo fanno seguendo altri moti comportamentali, altri stili di vita, convinti (come lo siamo stati noi) di cambiare il mondo. Solo chi ha già fatto scorta fino alla nausea di vita reale ne ha talmente abbastanza da ipotizzare una piena realizzazione nel suo analogo digitale.

I ragazzi scelgono al vita reale, e questo ci porta dritti a un’altra considerazione.

Queste potentissime tecnologie non sono sostitutive di qualcosa, piuttosto ci dovrebbero consentire di ragionare in termini di facilitazione, agevolazione, commodity. La possibilità di ottenere funzionalità di approfondimento conoscitivo mediante la realtà aumentata non può sostituire le sensazioni, le emozioni, le percezioni dell’esperienza reale, può migliorarne la lettura e la comprensione. Sarebbe come scegliere di vedere la Gioconda attraverso un visore avendocela di fronte. Dobbiamo trovare l’equilibrio aureo per cui il digitale diventi una funzione aggiuntiva, opzionale, sinestetica dell’esperienza fisica diretta.

So che per molti di noi, la confusione generata dai social media è difficile da riordinare. Il fatto che alcune esperienze – come andare a mangiare un buon piatto o bere un buon vino – non sembrino più esistere se prima non siano documentate e pubblicate su un social non dimostra affatto che le persone desiderino vivere nella virtualità; piuttosto sono l’ennesima prova che la rappresentazione digitale della vita si esprime mediante un continuo gameplay estetico… la competizione delle immagini, l’acquisizione di punti nella forma di like o follower, la sensazione di benessere data dal successo di un post o di un video, le polarizzazioni e le discussioni in cui si vince o si perde. Un gioco tecnologico composto da tantissime piattaforme, applicazioni, interconnessioni, interazioni in cui le merci più utilizzate sono l’esibizione di sé e le performance.

Questo sistema drogato da potenti algoritmi è quello che gli unicorni della tecnologia intendono portare nella nuova era del web, quella del Metaverso. Come se si trattasse di un’arena pronta per continuare il gioco iniziato 15 anni fa sui social. Lo dimostra il fatto che in questa fase l’offerta presente su Oculus non è altro che il web in un Device diverso – una nuova bandierina per la UX.

E, anche se pare già annunciato che il grande trend dei mondi meta sarà la connessione tra le persone, c’è da chiedersi in che modo le potenzialità di questo strumento potranno davvero diventare fondamentali per asset come la ricerca, la sanità, l’educazione, e staccarsi dal facile mercato dei social media.

Per ora siamo solo alla fase Beta di Meta, ma non sarebbe strano se rimanessimo per ancora molto tempo ancorati a questo livello perché se è vero che nel Metaverso non c’è nessuno, è altrettanto vero che per ora non c’è alcuna ragione per starci.

La collaborazione con Feltrinelli EDU.
La collaborazione con Feltrinelli EDU.

Come diventare Content Creator – Feltrinelli Education

 

La collaborazione con Feltrinelli Education è il risultato di una stretta affinità di linguaggi, obiettivi e modelli culturali. Prima di tutto, c’è un’idea specifica della formazione come processo di crescita personale: la convinzione della necessità di un approccio orientato al lifelong learning che si unisce alla missione della valorizzazione della cultura, settore nel quale Feltrinelli da sempre si è contraddistinta per un posizionamento di assoluto prestigio. Non è un caso che ci siamo incontrati sul terreno della content creation, l’economia della progettazione, sviluppo e distribuzione dei contenuti; non è un caso, perché da sempre lavoriamo con sensibilità e attenzione sulle arti come strumenti di educazione, crescita, acquisizione di conoscenze e competenze. Da sempre cerchiamo di capire come raggiungere un equilibrio aureo tra gli obiettivi della formazione, la qualità del progetto e il potere dei media digitali. Oggi sappiamo che gli habitat digitali sono sempre più pervasivi; pubblicare un post, un video, un podcast sono attività all’ordine del giorno, rese più semplici dalla velocità di sofisticazione dei media, dagli sviluppi sempre più mirati e puntuali della UX, dal crescente tempo di connessione e uso di device digitali e piattaforme. Quello che, però, fa la differenza è la modalità di creazione del format. Il valore di un contenuto che, pur in un flusso enorme di informazioni e post nati per gestazione spontanea dagli utenti, si contraddistingue per intelligenza, fattura e capacità di coinvolgimento.

SI è imposta la figura del content creator in grado di essere aggiornato sui dibattiti della cultura contemporanea, capace di riconoscere i diversi layout editoriali, consapevole delle complessità degli step di sviluppo di un’idea (compreso l’uso di hardware e software), dal concept al prodotto finale. Un  professionista sempre più indispensabile in un’organizzazione a prescindere dalla finalità e dalla natura del contenuto prodotto. Per chi, come noi, sta facendo ricerche e curando progetti sui temi delle Digital Humanities, lavorare con Feltrinelli Education significa avere l’occasione di trovare sulla propria strada i migliori e più accreditati partner. 
 
 

CORSO IN LIVE STREAMING  – DURATA 1 MESE – 8 INCONTRI  – CERTIFICATO DI FINE CORSO

Come diventare content creator. Dall’idea al prodotto di comunicazione

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 –    Scegliere i canali, i format e le piattaforme più adatti ai tuoi obiettivi

     Lavorare al design dei tuoi contenuti

 –    Utilizzare gli strumenti tecnici del content creator

 –    Coltivare la tua community e promuovere il tuo lavoro

Una volta, creare contenuti editoriali e creativi per lavoro era appannaggio dei pochi in grado di avere gli strumenti e il pubblico per farlo. Oggi, invece, viviamo nell’era della content economy. La crescita imponente dei social-media, la necessità per professionisti e aziende di mantenere vivo e dinamico il proprio habitat digitale, hanno contribuito all’affermarsi di nuove competenze di design dei contenuti. Linguaggi e formati di ultima generazione hanno fatto emergere la nuova figura professionale del content creator, competente non solo nell’ideazione e scrittura, ma anche nella realizzazione concreta di contenuti digitali.

Nella figura del creator convergono diverse capacità, dalla conoscenza dei diversi settori dei media digitali all’uso di tools e strumenti tecnici per la produzione e post-produzione di contenuti: dai testi alle grafiche, dai video ai podcast.
In questo corso – dalla creazione di una strategia editoriale all’uso dei principali strumenti per la creazione di contenuti digitali – impareremo come fare della content creation un mestiere.

Come funziona

Il corso ha la durata di circa un mese, suddiviso in 8 appuntamenti, tutti da seguire in orario preserale in live streaming. Nel corso delle lezioni, professioniste/i esperti della tematica trattata guideranno le/i partecipanti attraverso lezioni teoriche, esercitazioni guidate e analisi di casi studio, con l’obiettivo di acquisire gli strumenti di base del settore.

Per ulteriori informazioni su costi e modalità di iscrizione o per visionare il profilo dei docenti, puoi visitare la pagina dedicata di Feltrinelli Education

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(Al termine degli incontri, troverai le registrazioni delle lezioni sempre sulla piattaforma di Feltrinelli Education).

 

Date e orari degli incontri 

  • 21 settembre – PIATTAFORME, CANALI, FORMAT  (18:30 – 20:00)
  • 28 settembre – IL DESIGN DEI CONTENUTI DIGITALI  (18:30 – 20:00) 

  • 5 ottobre – GLI STRUMENTI: STREAMING E VIDEO  (18:30 – 20:00)
  • 12 ottobre – GLI STRUMENTI: IL PODCAST  (18:30 – 20:00) 

  • 19 ottobre – LABORATORIO DI CONTENT CREATION  (18:30 – 19:30) 
  • 26 ottobre – LABORATORIO DI CONTENT CREATION  (18:30 – 19:30 

  • 2 novembre – LABORATORIO DI CONTENT CREATION  (18:30 – 19:30) 
  • 9 novembre – LABORATORIO DI CONTENT CREATION  (18:30 – 19:30)
 
 
La collaborazione con Eulab.
La collaborazione con Eulab.

TNA con Eulab per l’edutainment

Quest’anno siamo partiti con una collaborazione con Eulab Consulting, un’azienda specializzata nel digital learning tra le migliori nel settore.

L’obiettivo, con un team di autori, formatori, edutainment designers, filmakers, attori, è di sviluppare una serie di attività di e-learning mediante la progettazione e implementazione di strutture narrative e interactive games. Parliamo di oggetti formativi complessi, sviluppati su diversi piani e monte ore, concepiti come contenitori di contenuti eterogenei, dalla fiction alle spiegazioni teoriche, dalle esercitazioni ai giochi. 
 
La digital education sta cambiando. Si richiedono ormai competenze profonde non solo nei campi del sapere direttamente toccati dai topics, dai temi e dagli argomenti dei corsi, ma nel design della dinamica formativa, nella user experience, nella scrittura finzionale sempre più orientata all’interattività e all’engagement diretto degli utenti. Il gameplay non deve mai sovrastare l’equilibrio aureo tra fine didattico, motivazione al coinvolgimento, divertimento.
 
Abbiamo lavorato su oltre 14 sceneggiature, costruendo strutture formative ricche di contenuti, grazie anche al prezioso contributo di professionisti come Carlo Cuomo, Rossana Nicastro, Giovanna Fregola, specialisti appassionati, competenti, affidabili. Percorsi su tante competenze diverse, dal Design thinking al Problem solving, dal Digital coaching al Self empowerment, dal Data analytics al Metaverso.
 
Quello che abbiamo capito è che un progetto di questo tipo per essere davvero efficace ha bisogno del collettivo. La collaborazione di sensibilità, culture, preparazioni differenti rese complementari dall’unico obiettivo di restituire un prodotto coerente, ben strutturato, interessante.
 
Nei prossimi mesi continueremo su questi e altri progetti con l’idea di rendere sempre più sofisticato il mestiere di autore di contenuti di edutainment, una missione per continuare a divulgare sapere e cultura nella miglior forma e con i format più incisivi che i media ci permettono di realizzare.
 
La collaborazione con Fondazione Media Literacy.
La collaborazione con Fondazione Media Literacy.

TNA partner della Fondazione Media Literacy

Siamo lieti di aver siglato un accordo di partnership con la Fondazione Media Literacy. Siamo felici perché ci sembra il coronamento di un percorso che – dall’educazione alla produzione di contenuti, dagli eventi all’informazione – ci ha sempre visto in prima linea. La progettazione e distribuzione della cultura è da sempre nel nostro DNA e non è un caso che in questi anni abbiamo attivato una serie di riflessioni sul suo ruolo nei percorsi di crescita personale e professionale.

Abbiamo attivato spazi di ragionamento e dibattito per riflettere sui modelli di produzione destinati ai diversi mercati, sui linguaggi della comunicazione, sulle finalità dell’informazione. Abbiamo dato spazio a commenti e confronti sui temi dell’editoria e dei media digitali, fino a occuparci più da vicino di aspetti filosofici, etici, sociologici, psicologici, pedagogici.

Oggi, con Fondazione ML, si apre una nuova strada. Quella della collaborazione con un’organizzazione importante, riconosciuta, solida e autorevole. Una Fondazione in prima linea nella promozione di iniziative culturali, nella diffusione di pubblicazioni, nell’organizzazione di seminari e convegni, nell’ideazione di workshop di apprendimento non formale incentrati sul corretto uso dei media tradizionali e non. Il tutto senza scopo di lucro, per amore della crescita del capitale intellettuale, sociale e umano rappresentato dalle persone che ci seguono, ci hanno seguito e ci seguiranno.

 

Mandragola Editrice

 

Tra i fondatori di Media Literacy c’è Madragola Editrice, storica cooperativa di giornalisti che ha dato vita ad ambiziosi e importanti progetti come Zai.net, il mensile delle scuole superiori anche in versione multimediale, e Radio Jeans, una radio realizzata da studenti. I punti di convergenza con la Fondazione li raccontiamo nei 10 pillar del manifesto dell’Editrice che descrivono al meglio gli obiettivi che ci siamo posti:

1) LETTORI PIÙ CONSAPEVOLI, CITTADINI MIGLIORI

Crediamo che i ragazzi debbano maturare la consapevolezza che una corretta fruizione dell’informazione è alla base di ogni moderna democrazia. Proprio per questo i redattori di Zai.net non sono futuri giornalisti, ma lettori evoluti in grado di comprendere i meccanismi dei media.

2) SVILUPPO DEL PENSIERO CRITICO

Crediamo che suscitare domande, fornire ai ragazzi competenza critica, offrire loro l’’alfabetizzazione mediale per essere cittadini del XXI secolo, contribuisca a formare il cittadino cosciente, attivo, critico, sociale, creativo.

3) CITTADINANZA ATTIVA

Crediamo che i nostri ragazzi, attraverso un attento lavoro critico, possano osservare la società che li circonda, porsi domande e leggere con altri occhi i meccanismi che regolano la vita sociale e politica del nostro Paese.

4) IMPARARE FACENDO

Crediamo nel principio del “learning by doing”, che ha trovato il suo riferimento teorico nelle scienze dell’educazione e in quelle della comunicazione.

5) DIDATTICA ORIZZONTALE

Crediamo che i giovani, attraverso il metodo del peer to peer, possano condividere con i loro coetanei ciò che hanno appreso nella nostra redazione. L’esperienza trasmessa può responsabilizzare il ragazzo che spiega e stimolare lo studente che impara.

6)  NETWORKING E DEMOCRAZIA DIFFUSA

Crediamo nella forza del gruppo: i membri della nostra community sono contemporaneamente fruitori e produttori di contenuti; si confrontano e dialogano tra loro attraverso lo scambio partecipativo di informazioni dagli oltre 1.700 istituti superiori collegati in tutta Italia.

7) CULTURA DI GENERE

Crediamo nel rispetto dei principi di tolleranza e democrazia e per questo promuoviamo in ogni ambito del nostro lavoro la diffusione di una cultura di genere.

8) SOSTEGNO ALLE SCUOLE

Crediamo di dover sostenere le esigenze della scuola nel modo più diretto ed efficace possibile, coinvolgendo le Istituzioni, le Fondazioni e le aziende private più attente al futuro delle nuove generazioni.

9) DALLA PARTE DELLA BUONA POLITICA

Crediamo in tutte quelle istituzioni che pongono i giovani al centro delle loro politiche.

10)  DALLA PARTE DELLE IMPRESE ETICHE

Crediamo sia giusto investire risorse economiche in progetti educativi in favore delle giovani generazioni affinché possano acquisire consapevolezza del proprio ruolo civile e sociale.

 

Un ringraziamento speciale va al Presidente Renato Truce e al Segretario Generale Lidia Gattini, che hanno riposto in noi fiducia dimostrando stima e apertura.

Davide Pellegrini, Direttore The Next Agency

 

 

Il content ha cambiato l'idea del lavoro. il Blog.
Il content ha cambiato l'idea del lavoro. il Blog.

Il content digitale ha cambiato la nostra idea del lavoro

La pandemia ha costretto molti di noi a ripensare il proprio mondo. Per i più si è trattato di prendere le misure con un nuovo stile di vita, rafforzato dal remote working come condizione centrale. Per altri è diventata nel tempo un’opportunità per uscire da una zona di comfort a volte rigida e ripetitiva e affacciarsi su un mondo in movimento in cui l’evoluzione tecnologica si lega alla trasformazione sociale, espressiva e comportamentale. Per usare parole semplici, un mondo che cambia velocemente e mette al centro le persone, i loro progetti, aspirazioni, valori, bisogni.

Su un articolo di The Vision, Come la produzione di contenuti ha permesso a molte persone di reinventare il proprio lavoro, di Elisa Berlin, c’è una bella riflessione riguardo la trasformazione di molti professionisti in abili creator digitali, sia per un bisogno di sostentamento, sia per la scoperta di talenti spesso nascosti dalla routine quotidiana del lavoro. La produzione e l’utilizzo di contenuti ha preso e sta prendendo diverse forme, dai video ai podcast fino allo streaming. I format sono soprattutto tutorial, corsi di formazione e contenuti di intrattenimento, con alcuni vertici come nel caso del gaming (diventato un vero e proprio driver per lo sviluppo di show digitali in cui le dirette vengono commentate dai performer spesso attraverso dialoghi real time con i propri viewer e follower).
The Vision avverte, un report di Google indica come già dal marzo del 2020 le ricerche di video sulla formazione scolastica siano aumentati del 120% e gli how to del 50% (cucina, bricolage, make-up). Sul tema videogame il discorso è piuttosto complesso e porterebbe via tempo, forse anche per il fatto che viene ancora discussa come una questione strettamente legata alle ultime generazioni. E non è sempre vero.

 

 
Resta, invece, tutto da esplorare l’universo video e podcast. La pandemia, due anni comunque impegnativi, ha portato un’altra percezione del tempo e ci ha messo di fronte alla fragilità della vita sociale e delle community di relazioni. Un fatto importante, perché per molti i video di YouTube o le dirette di Facebook e Instagram hanno rappresentato un aiuto psicologico per combattere l’ansia e lo stress (con un boom vero e proprio di clip fiction di tipo comico, la entertainment); in altri casi hanno permesso alle persone di conoscere cose che ignoravano (infotainment) e approfondire aspetti dell’auto-organizzazione della propria quotidianità che, dal tutorial alla formazione, hanno fatto crescere competenze e hobby. Hanno allargato le prospettive della conoscenza e dell’apprendimento culturale e, dato importante, fatto sentire le persone meno sole facilitando la ricostruzione, seppur virtuale, di relazioni sociali basate su interessi comuni.
 
L’impatto del content sul versante della professione e della produzione ha introdotto alcuni elementi fondamentali:
 
1 –  l’esplosione del video come strumento di comunicazione branded oriented, non più e non solo secondo la metrica pubblicitaria della comunicazione = valorizzazione del prodotto = consumo, ma come costruzione di contenuti di valore. In alcuni casi, pensiamo all’industria culturale, la video-divulgazione è diventata un importante modo per raccontare i progetti e attrarre fruitori e pubblico (audience engagement). Pensiamo, ad esempio, ai musei;

2 – l’affermazione progressiva e in continuo sviluppo di competenze tecniche di progettazione, produzione e post-produzione. Oggi, grazie a un orientamento ben costruito nel modello di creazione di un contenuto e con le strumentazioni disponibili è davvero possibile realizzare un’attività di content-producer di medio, buon livello;

3 – il perfezionamento di hardware e software. Mai come in questi ultimi anni si è raggiunto un picco così alto nella commercializzazione di prodotti e servizi dedicati al digital content. Da camere per il vlogging a gimball, da consolle per la regia a tastierini per lo streaming, da strumenti per la produzione professionale di podcasting a schede di acquisizione video per gaming di vario tipo. Per non parlare dei software, un numero infinito di applicazioni, spesso in dotazione direttamente sulle piattaforme di video-hosting come #YouTube, #Instagram, #TikTok.
 
Oggi il content design è la prospettiva di un mestiere tra conoscenza della rete e dei mercati, creatività e contenuto, modello di produzione e distribuzione; un mestiere in crescita che può raggiungere livelli davvero alti e correre ai ripari di settori sempre più in crisi, come la cultura, l’educazione, l’informazione, la sanità.

Se vuoi approfondire il nostro percorso in Digital Humanities, vai sul sito dell’educational previsto a partire da fine giugno 2022.

 

 
 

Il ruolo delle digital humanities nei Metaversi

I metaversi rappresentano ormai una nuova prospettiva nell’estensione di senso e di esperienza offerti dai mondi fisico e digitale. Attenzione, anche se la tentazione è di far coincidere il Metaverso con un habitat virtuale costruito ad hoc per l’uso di nuovi devices tecnologici, avvertiamo subito: il tema è più complesso. Il filosofo Galloway ne parla ampiamente facendo riferimento a logiche del tutto inedite che introducono nuove estetiche, nuove emergenze. Se siamo abituati a immaginare spazi già consolidati con i game MMPORG come The Sims, Minecraft, Fortnite e Roblox, preceduti dall’antesignano Second Life, d’altro canto è un fatto che l’attuale discussione sul Metaverso “viri verso la spazializzazione in cui il nostro corpo viene potenzialmente coinvolto in un’ecologia complessa” (cit. Simone Arcagni, Alessandro Bollo).

Il focus resta quello della possibilità di estendere il campo di applicazione dei Metaversi a territori ibridi co-abitati da fisico e digitale, sia dal punto di vista dell’arricchimento delle esperienze di crescita personale e professionale, sia da quello dell’effettivo rafforzamento di pratiche, strategie e strumenti di divulgazione della conoscenza. Qui, viene il bello. Se pensiamo, ad esempio, al settore culturale (ma quale organizzazione, quale azienda di per sé non è già un ecosistema culturale?), va sottolineato che occorre immaginare nuovi modi di pensare, progettare, distribuire contenuti. Le Digital Humanities, che hanno sempre lasciato ampio margine di interpretazione (se vogliamo procedere con classificazioni, spesso parziali), oggi vanno viste come l’insieme delle scienze umane e sociali, le arti e le lettere che possono contribuire a ottimizzare l’apporto del mondo digitale alla valorizzazione e distribuzione del sapere. Stephen Ramsey afferma che il termine possa avere un ampio spettro di significati, dagli studi sui media e l’arte elettronica all’edutainment, dal gaming alla produzione di contenuti digitali sotto forma di video, podcast, dal data mining all’edutech. L’allargamento del significato di Humanities necessita di una presa di responsabilità da parte di istituzioni, istituzioni culturali, imprese e associazioni. Non si tratta solo di digitalizzare la cultura, ma renderla accessibile. Non si tratta solo di marketing per le aziende, ma di svelarsi come sistemi di valore, come filiere di senso in grado di avere un ruolo nella dialettica contemporanea su temi di interesse generale. L’educazione e la cultura, la qualità della vita, l’importanza dell’istruzione, la crescita del benessere psicologico, la responsabilità sociale. Un nuovo operatore avrà anche questa opportunità, pensare al design di un’esperienza prima ancora che a un semplice contenuto da pubblicare. I Metaversi sono un crocevia, path esplorativi da cui costruire un pezzo digitale che possa facilitare la comprensione e l’assorbimento delle esperienze fisiche.
 

Davide Pellegrini